L'appuntamento (capitolo quattro, 1° episodio)

Ad Abele piaceva passeggiare per la città. Il centro, a quell’ora, era sempre affollato, e le vie erano un andirivieni di automobili, di bus, di biciclette ma soprattutto di gente. Persone che camminavano. Chi andava verso destra, chi andava verso sinistra, chi parlava al telefonino, chi parlava con il compagno di viaggio. Per Abele quello che rendeva viva una città erano le luci, le finestre aperte attraverso le quali si poteva vedere il tipo di copridivano che aveva scelto la padrona di casa, oppure i quadri appesi. Era tutto ciò che occupava le strade, e le rendeva tappeto di migliaia di esistenze, ognuna diversa dall’altra e ognuna con una storia diversa da raccontare. Migliaia di esistenze che si ignoravano.

Completamente.

La città è fatta di persone che si osservano, si scrutano e formulano taciti giudizi l’uno sull’altra, e che ognuna tiene dentro di sé, per parlare solo con se stesse. O al massimo con gli amici, con i fratelli della propria tribù. Abele sapeva che una città è come un grande insieme di tante e diverse tribù, di gente di razza diversa. Come tribù sparse nella foresta amazzonica, che vivono lontane tra loro, le tribù della città, nonostante vivano a gomito a gomito, si ignorano a vicenda.

Ad Abele piaceva tutto questo. Si aggirava per le strade, con le mani in tasca, osservando la gente, squadrando le vetrine e le commesse. Tutti gli altri erano estranei, era come se per la strada ci fosse solo lui, uno straniero tra tanti appartenenti a tribù straniere, anche se tanti li aveva visti diverse volte. Gli piaceva pensare di fare parte di un grande insieme immaginario, dove tutti erano inconsciamente necessari agli altri, forse anche solo per raggiungere un equilibrio “cosmico”, fatto di sole presenze. Abele non avrebbe mai vissuto in un posto isolato, lontano da tutto e da tutti. Ne sentiva il bisogno, talvolta, ma riusciva a reggere solo per un breve periodo, una specie di vacanza, come una purga.

© Massimo Rognini

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