Fuori
del palazzo dell’agenzia, il bagliore della luce pomeridiana
costrinse Abele ad inforcare gli occhiali da sole. Si incamminò per
la strada, e, come spesso accadeva, incominciò a farsi il processo,
cercando di analizzare la conversazione che aveva appena avuto con
Ambra, cercando di individuare le parole sbagliate, per poi maledirsi
per non aver detto quelle che riteneva, in quell’istante, essere le
più appropriate; oppure cercando quelle frasi che non aveva detto ma
che avrebbe voluto dire. Si dette del pasticcione, come sempre.
Una
chitarra stava suonando, dietro l’angolo. Incuriosito, svoltò e si
avvicinò alle persone che stavano ferme in circolo, ad ascoltare un
giovane che cantava e suonava l’armonica ed una chitarra acustica.
Era uno di quei girovaghi che d’estate popolavano la città, magari
in compagnia di un cane, che cantavano per le strade con un cappello
appoggiato per terra. Quel tipo, poi, aveva anche un tamburo ed i
piatti sulla schiena. Abele lo osservò con attenzione, anzi, con
ammirazione. Si tolse gli occhiali, accennando un sorriso, pensando a
quanto lui fosse simile al quel ragazzo. Benché fossero vestiti in
maniera diametralmente opposta, loro due erano “colleghi”: si
concedevano in pasto ad un pubblico. Quel tipo, si sentiva da come
cantava in inglese una canzone che Abele conosceva ma non ne
ricordava il titolo, era straniero. In giro per il mondo, offrendo sé
stesso agli altri. A casa avrà avuto una persona da amare? O forse è
fuggito proprio perché l’ha perduta? Se avesse saputo suonare la
chitarra, forse quello era il momento buono per prendere un treno e
fuggire via, magari nel Sudamerica, a cantare per le strade. Ma lui
non aveva mai avuto una chitarra, allora si limitò ad allungare
mille lire nel cappello del menestrello, s’infilò gli occhiali e
riprese a camminare, sorseggiando l’aria calda del pomeriggio.
Quella
sera, dopo aver aperto una bottiglia di birra, Abele ascoltò il
messaggio che sua madre aveva lasciato sulla segreteria telefonica:
lo salutava perché partiva per il meeting con la direzione per
qualche giorno. Si mise a sedere davanti al computer, svogliato, con
l’intenzione di andare a navigare in Internet a vedere qualche cosa
di interessante e leggere la posta elettronica. Si ricordò però che
non poteva permettersi, per ora, telefonate troppo lunghe, e lunghe
lo sarebbero state, se si metteva davvero a navigare. Abele decise
allora di giocare un po’ a solitario con le carte, e solo dopo
avrebbe controllato la posta. Però non resistette alla curiosità e
cambiò idea: si collegò al pop del provider. Il modem compose il
numero, poi un paio di squilli piagnucolanti, seguiti dal classico
fruscìo, come quelli dei fax... e quindi quello finale, lungo: il
modem s'era commesso. Avviò il programma e scaricò i messaggi. Ce
n’erano due. Il primo era di Paolo, che commentava quanto era
successo quel pomeriggio:
“ Oh,
sono io. Non te la prendere, è solo l’inizio. Sto scherzando,
tranquillo…Vedrai che andando avanti saprai riconoscere dal tono
della voce come le cose si svilupperanno. Ci vuole pure fortuna. O
stomaco, fai te…Ciao. Paolo. Ps: intanto goditi questa…”.
Il
messaggio era corredato di un allegato, che il PC scaricava
lentamente, disegnandolo riga dopo riga sul monitor, ed era la foto
di una pottona in posa invitante, ovviamente nuda.
© Massimo Rognini
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